venerdì 9 agosto 2013

Movimento lento.

di Wu Ming 2

Se inserite in un motore di ricerca la parola “lentezza”, il risultato è una lista di siti che propongono di vivere, viaggiare, lavorare, mangiare fuori tempo rispetto ai ritmi incalzanti della quotidianità. Dietro questa comune rivendicazione, però, si nascondono e spesso si mescolano due visioni del tutto differenti. Da una parte, quella di chi vuole ritardare l’arrivo del futuro e quindi considera la lentezza come una sorta di macchina del tempo, capace di riportare in vita gli aspetti più sani di un passato ormai perduto. Dall’altra, quella di chi ritiene che nessun cambiamento reale, e dunque nessun futuro vivibile, possa prodursi senza una rottura del tempo.

Credo che l’approccio più utile e fecondo al tema della lentezza, consista nel sottolineare questa seconda prospettiva, evitando di farsi contagiare dalla prima. I bei tempi andati in cui la vita seguiva un altro ritmo erano infatti tempi di schiavitù, di mortalità infantile, di piccole città stato sempre in lotta tra loro, di donne confinate in casa, di lavoratori senza diritti. In poche parole: erano bei tempi, forse, soltanto per un pugno di privilegiati che se li potevano permettere.
Se l’apologia del passato suona reazionaria e stucchevole, non sempre le cose vanno meglio con l’evocazione del futuro. Il più delle volte finiamo per raccontarcelo come una semplice proiezione del presente, dritta davanti a noi a distanza di tempo, ovvero come un presente invecchiato, che di conseguenza non scalda il cuore a nessuno.


Le continue, frenetiche innovazioni tecnologiche ci danno l’impressione di un mondo che cambia a ritmi velocissimi, anche se spesso quelle innovazioni non sono altro che obsolescenza programmata, merci pensate per diventare vecchie prima di consumarsi, così da alimentare un paradossale “consumo senza consumo”. Il classico cambiamento che non cambia nulla e anzi riproduce il sistema di cui è figlio, il solito tran tran. In questo senso la frenesia è davvero il contrario dell’utopia. Perché chi si lascia incalzare dal presente è incapace di pensare il futuro, se non come “presente invecchiato”, presente spruzzato di morte. La lentezza invece dovrebbe essere soprattutto questo: darsi il tempo di desiderare un altro tempo, un altro stato di cose, diverso da quello presente. Si potrebbe dire che essa è necessaria come impulso utopico, ma non è sufficiente come programma. Anzi, spesso è proprio nel passaggio della lentezza da impulso a programma, da stimolo per pensare un mondo nuovo a chiave di volta per costruirlo, che nasce la confusione tra i due approcci di cui sopra.

Il capitalismo si è imposto come sistema produttivo imponendo sulla vita un unico tempo: quello del lavoro. La diffusione degli orologi ha sancito questa distruzione della crono-diversità: il tempo del pasto diventa la pausa-pranzo di un’ora, il tempo di una pisciata in fabbrica viene quantificato, il tempo libero è dalle-alle. Non contento, nella sua fase più tardiva il capitalismo si è mangiato anche lo spazio: ormai siamo tutti dentro la globalizzazione, in cerca appunto di spazi alternativi, liberati, utopici. Ma non basta liberare lo spazio, se il tempo rimane schiavo. Occorre creare una doppia discontinuità: nel tempo e nello spazio. Non a caso, uno dei movimenti alternativi più interessanti degli ultimi vent’anni – i NoTav della Val di Susa – proprio su questa doppia articolazione hanno costruito il loro successo. Radicamento sul territorio, presidi, marce, luoghi simbolici (cioè un altro spazio) insieme al rifiuto delle scadenze imposte dai cantieri, con vent’anni di mobilitazione ad libitum, pazienza, racconto, critica, riscoperta della Storia (cioè un altro tempo).

E’ chiaro che l’importanza di queste due variabili dipende dal fatto che la nostra stessa vita si svolge nello spazio-tempo e sarebbe impensabile all’infuori di esso. Tuttavia, c’è una particolare attività nella quale queste due dimensioni della nostra esistenza sono coinvolte in maniera molto evidente: il movimento. Attraversare un certo spazio in un certo tempo. Per questo credo che il movimento lento – camminare, pedalare – sia l’esperienza che più di ogni altra può trasmetterci l’impulso utopico a desiderare un altro futuro. Abbiamo bisogno di prendere coscienza della nostra frenesia e di quello che essa ci fa perdere e ci occulta. Ma per farlo dovremmo riuscire a guardarci da fuori, e questo non è affatto facile, se rimaniamo immersi nel byt, la parola che in russo indica la quotidianità. Se vogliamo immaginare un beat diverso – un altro ritmo e un altro tempo – dobbiamo prenderci una pausa dal byt. Camminare può essere questa pausa. Soprattutto: camminare attraverso spazi che ormai sono pensati per altri tempi, per altre velocità. Andare a piedi da Bologna a Firenze, il “collo di bottiglia” d’Italia, dove si concentrano due autostrade, tre statali, quattro linee ferroviarie. Costruire un sentiero da Bologna a Milano – come stiamo cercando di fare sul nostro blog – per imparare a leggere il paesaggio di quella Grande Pianura che ormai consideriamo tabula rasa, buona giusto come piedistallo per capannoni, outlet in forma di villaggio, villette a schiera e infrastrutture. Perché camminare, – immergersi nel territorio senza la mediazione di un finestrino, liberi di guardarsi intorno, privi di ostacoli da evitare al volo, – ci consente soprattutto di rallentare e approfondire lo sguardo. Di capire che il futuro è davanti a noi, ma non lo si raggiunge correndo in linea retta. Occorre scartare, deviare, scoprire passaggi sghembi e segreti, come un viandante che cerca il suo sentiero, perché sa che esiste, magari nascosto, e per questo in tanti lo chiamano utopia

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